mercoledì 5 novembre 2008

INTERPRETAZIONE EVOLUTIVA ART.1 COST



A P e M,

che lavorano



E le chiamano morti bianche,
ma non dovrebbero chiamarle
piuttosto, morti tante, tante, tante…

(La ballata dell'invalido, di Gianni D'Elia)



L'Italia è una Repubblica democratica,

fondata sul lavoro”

(art.1 Cost)



La Repubblica italiana fonda le proprie radici sul lavoro, in primis sul diritto al lavoro e quindi su tutta una serie di diritti (alla sicurezza, alla pensione, alla salute...).

Uno Stato che ha una media di 3,5 morti sui posti di lavoro al giorno, viene meno al proprio fondamento, al proprio pilastro, alla propria natura democratica. Ecco allora la mia interpretazione evolutiva dell'articolo 1 della Costituzione: la personificazione scultorea della Repubblica che stringe tra le mani la Costituzione, una Repubblica rivolta al lavoro, che si fonda sul lavoro, ma che è sorda e non riesce a garantirne i diritti fondamentali. Per tale motivo volta le sue spalle a una lapide, simbolo delle numerose morti bianche, su cui il candido giglio dell'innocenza rimane solo, sfiorito, sgualcito a rappresentare quelle voci inascoltate, quei pianti e quella rabbia di coloro che rimangono, di coloro che hanno perduto i propri cari, e che nessuno e niente potrà ripagare.

Sullo sfondo, sono raffigurati gli elementi essenziali del lavoro: una fabbrica e altri edifici industriali, espressione dei gravi danni alla salute cui possono essere esposti gli operai nel tempo; un edificio in costruzione con una scala (l'idea principale era una impalcatura, ma poi ho pensato alla scala perché rappresenta maggiormente il livello di insicurezza sui posti di lavoro). Infine, in secondo piano un treno, lavoro molto ambito soprattutto in passato, ma espressione anche di quel fenomeno che è l'emigrazione, tema a me molto caro, essendo figlio di emigranti ed emigrante io stesso!





Gianni D’Elia


Ballata dell’invalido

E li chiamano incidenti sul lavoro,
ma non li dovrebbero chiamare
piuttosto, incidenti sul capitale?...

Meno soldi e meno diritti,
questa è la danza che s’ha da danzare,
il ballo del lavoro col capitale!...

E le chiamano morti bianche,
ma non dovrebbero chiamarle
piuttosto, morti tante, tante, tante…

Tante morti sui luoghi del capitale:
cantiere, sterro, officina,
sui ponteggi, al tornio, sotto terra,

questo ballo del lavoro è una guerra!...
Morti e feriti, ogni giorno, e via!...
Questo è il ballo italiano e globale…

Meno soldi e meno diritti, mafia,
questa è la danza illegale,
il ballo del lavoro col capitale!...

Chi non ci lascia la pelle,
ci lascia qualcos’altro,
Ogni parte del corpo è buona!...

Buona la faccia, buona la mano,
buono il braccio, l’occhio, il moto umano!...
La vita rubata qui si assapora…

“E quindi uscimmo a riveder le stelle.”…
Sì, ora ho tutto il tempo per la poesia,
ma sulla mia sedia a rotelle!...

E li chiamano incidenti sul lavoro,
ma non li dovrebbero chiamare
piuttosto, incidenti sul capitale?...

martedì 28 ottobre 2008

Preveniamo le infiltrazioni studiando Pasolini

Questa è una lettera aperta, rivolta agli studenti delle scuole superiori e delle università italiane, che finalmente si riversano nelle strade e dentro le scuole del Bel paese, per dire al Potere politico, italiano e mondiale, che la crisi finanziaria non si paga attentando al patrimonio dei diritti repubblicani.
Sotto accusa, diretta o indiretta, è un'intera epoca, che impareremo nei prossimi anni a definire “Il trentennio” (della colonizzazione mercantile, militare e psichiatrica), e che tutto sommato aveva pensato di poter prima svincolare, e poi anteporre, la trama economica a qualunque contesto o disegno di società e di comunità.
Io vi ringrazio, cari studenti. Con tutto il mio cuore di poeta, innamorato della vita e dell'umanità, e della politica intesa come volontà collettiva di realizzare speranze.
Voi siete i primi agenti spontanei di un risveglio probabilmente epocale. Sentitevi investiti di una enorme responsabilità.
Perché questo è un risveglio che potrà diffondersi dalle scuole alla società, sino ad irradiarsi nel mondo soffocato dello sfruttamento interinale, ed anche, magari, nel disagio classista dei nuovi proletari extracomunitari.
State spegnendo la televisione. Scoprendo pubblicamente che tutto il mondo sino ad oggi rappresentato, altro non era che una platonica grotta di ombre virtuali.
Arrivo al dunque.
Siete una realtà potenzialmente molto importante, e per questo hanno già deciso di infiltrarvi.
L'eventualità di un risveglio collettivo non allieta le notti di chi da trent'anni è abituato a concepire la cittadinanza come massa di infanti da distrarre o impaurire.
Hanno deciso di infiltrarvi per pilotare la vostra inesperienza verso una nuova Genova.
Lo suggerisce con antica e nota ambiguità il Presidente emerito Cossiga: “infiltrare il movimento con agenti provocatori pronti a tutto, e lasciare che per una decina di giorni i manifestanti devastino i negozi, diano fuoco alle macchine e mettano a ferro e fuoco le città” (23/10/08, Quotidiano nazionale).
Ufficializza la provocazione Il Giornale del 26 ottobre, che apre con il titolo: “Scuola, nei cortei rischio infiltrazioni BR”.
La minaccia, nemmeno troppo velata, è già stata consegnata: se il Movimento studentesco non si sgonfia, sarà destabilizzato dall'interno, perché l'attuale classe dirigente non può permettersi che la protesta contamini il mondo del lavoro.
Dovete per questo prevenirvi. Immunizzarvi.
Irradiare consapevolezza e responsabilità, dove possono annidarsi irrazionalità e ignoranza (e quindi violenza).
Suggerisco di inserire nei programmi didattici delle occupazioni e delle autogestioni scolastiche, laboratori di studio sulle infiltrazioni terroristiche e militari all'interno dei movimenti studenteschi degli anni '70.
Si potrebbe partire, ad esempio, dallo studio degli atti della “Commissione parlamentare di inchiesta sul terrorismo in Italia e sulla mancata individuazione dei responsabili delle stragi”, presieduta dall'Onorevole Giovanni Pellegrino.
Studiare gli errori del passato, per prevenire le trappole del presente.
Ma soprattutto, occorre formulare un vero e proprio “antidoto culturale” che renda il Movimento naturalmente impermeabile ad ogni tentativo di manipolazione esterna, ideologica o militare.
Consiglio in questo senso la rilettura degli Scritti corsari e soprattutto di Petrolio di Pier Paolo Pasolini, che è davvero un romanzo antropologico sugli anni di piombo e sul Novecento.
Ed anche un libro importantissimo come L'eresia di Pasolini (Effigie, 2005) di Gianni D'Elia, che invita ad uscire dal dualismo dello scontro e al battesimo di una nuova Sinistra culturale, che sappia leggere Marx ma anche Leopardi, e che non debba mai più trovarsi a dover scegliere tra umanità e responsabilità, tra lotta e poesia.


Roma, 28 ottobre 2008
Davide Nota
www.davidenota.splinder.com

mercoledì 2 luglio 2008

MORTE ITALIANA

(Morte Italiana)





"Ma ho spiegato loro che
L'architettura non è giustizia"

(da Umiliato in catene di Sami Al Haj,
Poesie da Guantànamo, acd Marc Falkoff)





Il dipinto vuole essere un omaggio al poeta Pier Paolo Pasolini e una interpretazione sul mistero che si cela dietro la sua morte. Il titolo, Morte italiana, vuole richiamare proprio, e in primis, il vuoto culturale venutosi a creare con la morte di Pasolini. E' "morte italiana" perchè il delitto Pasolini ha portato con sè in Italia la morte della Giustizia innanzitutto (rappresentata da una bilancia sorretta da un fucile), della politica e delle istituzioni in generale (e quindi del PCI e della DC, rappresentate con le rispettive bandiere), degli italiani e di quei "ragazzi di vita" ormai omologati e massificati. Il delitto Pasolini è uno dei molti esempi di casi irrisolti in Italia, di misteri che a più di uno fa comodo che rimangano tali. Il mistero di questo delitto, secondo molti intelletuali (in primis, il poeta Gianni D'Elia) e secondo anche la chiave di lettura del dipinto stesso, è racchiuso all’interno del romanzo, uscito postumo, “Petrolio” (una petroliera sullo sfondo, in mezzo al mare, un mare con enormi onde, che sembrano quasi vogliano coprire tutto, cancellare ogni traccia di verità!). Pasolini stava addosso alla verità sulle stragi, al legame tra la politica e la guerra del petrolio italiano (da Il petrolio dlle stragi, di Gianni D'Elia).

E’ l’altra faccia della medaglia-Giustizia, di quella parte della Giustizia che si rende complice di crimini e assassini. Un omaggio anche a tutti coloro che sono vittime di questa “Giustizia-malata”.



Bisogna esporsi (questo insegna
Il povero Cristo inchiodato?),
la chiarezza del cuore è degna
di ogni scherno, di ogni peccato
di ogni più nuda passione…


(La crocifissione, da L’usignolo della chiesa cattolica, P.P. Pasolini)










lunedì 16 giugno 2008

SCACCO MATTO



“Andatelo a dire
ai caduti di ieri
che il loro morire
fu come le nevi”
(Gianni D’Elia)


“Ed io, Antonius Block, sto giocando a scacchi con la morte.”
(da IL SETTIMO SIGILLO, Bergman)


“Possiamo sempre fare qualcosa”
(G. Falcone)



E’ un omaggio a Giovanni Falcone e a chi, come lui, ha perso la vita per giocare questa bergmaniana partita degli scacchi bianchi contro quelli neri, dell’”Eroe” contro la Morte, dell’antimafia contro la mafia. E’ un omaggio a chi si batte, ancora, ogni giorno per difendere valori di giustizia, a chi ha scelto come motto di vita, uno degli insegnamenti di Giovanni Falcone: “Non mi sono mai chiesto se dovevo affrontare o no un certo problema, ma solo come affrontarlo”.

“Si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande. Si muore spesso perché non si dispone delle necessarie alleanze, perché si è privi di sostegno. In Sicilia la mafia colpisce i servitori dello Stato che lo Stato non è riuscito a difendere”(G. F.).
Infatti, ad un certo punto, si arriva ad una “zona grigia” dai contorni sfumati, dove l’antimafia compenetra nella mafia stessa, come pedine “mangiate”. Ciò che rimane è solo la festività delle inaugurazioni agli anniversari e gli “omaggi” materiali dello Stato (un ulivo, una statua), metafora della solitudine di quella parte della Giustizia non corrotta.

venerdì 9 maggio 2008

RINO GAETANO E IL VIAGGIO NEL SUD

Un'amica mi ha chiesto di scriverle qualcosa su Rino Gaetano e il suo rapporto con il Sud, qualcosa che spiegasse il senso del "viaggio" nelle sue canzoni....



Capire Rino Gaetano (1950-1981) e il rapporto tra le sue canzoni e il Sud, presuppone necessariamente la conoscenza delle sue origini.

Il cantautore nasce a Crotone nel 1950, ma si trasferì a Roma a dieci anni per motivi di lavoro dei genitori. Il trasferimento nella Capitale e il futuro successo non cambiano però il giovane Rino, che resta saldamente ancorato alle sue radici. Dimostrazione di ciò è il fatto che in ogni suo album è presente il richiamo al Sud, al mare, alla Calabria; basti pensare a “Ad esempio a me piace il Sud” e “Agapito Malteni il ferroviere” (1974), “Cogli la mia rosa d’amore” e “Al compleanno della zia Rosina” (1976), “Fontana chiara” (1977), “E cantava le canzoni” (1978), “Anche questo è Sud” (1979) come canzoni edite. Nel 1967 (all’età di soli 17 anni) scrive “La ballata del meridionale trapiantato”, una delle sue prime composizioni che parlino del Sud e fortemente autobiografica.

Il Sud diviene luogo delle sensazioni, dell’anima, ma al tempo stesso luogo di contraddizioni sociali, di eterni problemi, primo fra tutti l’emigrazione.

Viaggio simbolico.

In Ad esempio a me piace il Sud R. G. descrive le suggestioni paesaggistiche nelle quali si anima un mondo contadino ancestrale (“Camminare con quel contadino/Che forse fa la stessa mia strada/
parlare dell'uva”), ricco di tradizioni arcaiche (“la donna nel nero nel lutto di sempre”), di dure realtà e di disuguaglianze senza tempo (“parlare del vino/che ancora è un lusso per lui che lo fa”).
E’ un luogo dell’anima, attraverso il quale ripercorrere i simboli “pascoliniani” e le sensazioni della sua infanzia attraverso le verità agro-dolci del Meridione. Sembra che emerga un’immagine, un dipinto impressionista: “Ad esempio a me piace la strada/col verde bruciato, magari sul tardi/macchie più scure senza rugiada/coi fichi d'India e le spine dei cardi”. Stesso tono e significati usati in altre due bellissime canzoni: Cogli la mia rosa d’amore e Anche questo è Sud. Nella prima è proprio il Sud che si rivolge ad un fotografo, chiedendogli di fotografarne non solo le contraddizioni ma anche le bellezze (“Cogli la mia rosa d'amore/regala il suo profumo alla gente/cogli la mia rosa di niente”): anche qui il cantautore ritorna con la mente ai simboli e alle tradizioni di paese (“Cogli i muri bianchi di calce /la festa del Santo il giorno del pianto”). Nella seconda è come se ritornasse nei luoghi dell’infanzia e descrive il tutto con un linguaggio più poetico ed espressionistico: “vecchi gozzi alla deriva si preparano alla pesca/con le reti rattoppate nella stiva /l'onda avanza a passi nani agonistica col molo/mentre il vento già scommette coi gabbiani//E’ il crepuscolo sul mare rosso il cielo va a brunire/e qualcuno si avvicina alle lampare”.
Infine la strumentale Fontana chiara, le cui uniche parole sono “Fontana chiara/un poco dolce un poco amara”: pochissime parole (quasi una poesia ermetica) per esprimere le bellezze e le contraddizioni del Meridione.

Emigrazione.

Un tema che sta a cuore al cantautore calabrese, figlio egli stesso di emigranti. Fortemente autobiografica infatti è una sua canzone inedita mai incisa: La ballata del meridionale trapiantato (“Sul mare sei nato tu in una città del Sud/la lasciasti un giorno e poi non ci sei andato più”). La mancanza della sua terra natia era troppo forte e quindi quando poteva tornava:“Molti amici avevi tu solo pochi son rimasti/tutti gli altri son partiti ora non ci sono più//Ma come ricordi bene/molti ricordano il borgo natio/non certo come fai tu”. Questo senso di diversità del suo amore per il Sud, lontano dall’oleografia e dai luoghi comuni degli emigranti è espresso nel ritornello di Ad esempio a me piace il Sud: “Ma come fare non so/Si devo dirlo ma a chi /Se mai qualcuno capirà/sarà senz'altro un altro come me”.

«Ho fatto vari pezzi che parlano della emigrazione, ma ho sempre inserito questa piaga nel più vasto e alienante concetto dell’emarginazione e soprattutto non ho mai dipinto l’emigrante nella solita e trita iconografia (occhi lucidi, valigia di cartone e mamma in nero) cercando di cogliere maggiormente il travaglio dei suoi stati d’animo e dei suoi affetti» (R. Gaetano). Anche l’emigrante (e lo stesso cantautore quindi) guarda al Sud lasciato come un ritorno alle radici, ai ricordi, agli affetti. Ed è questo il senso di E cantava le canzoni: protagonisti del brano sono l’emigrante, il mercenario e il produttore. Tutti hanno in comune il fatto di lasciare il Sud (“E partiva l'emigrante e portava le provviste/due o tre pacchi di riviste”, “E partiva il mercenario con un figlio da sfamare/e un nemico a cui sparare”, “E partiva il produttore con un film da girare/e un azienda da salvare”), e per sentire meno la lontananza da casa e dalle donne cantavano le canzoni che sentivano sempre quando erano al mare. Per il ritornello il cantautore usa il dialetto per confermare il suo rapporto con il Sud e con le proprie origini (“E cantava le canzoni/che sentiva sembre a lu mare”). Il brano ricorda molto Il porto di Livorno del cantautore livornese Piero Ciampi, ammirato e stimatissimo dallo stesso Gaetano, il quale considerava tra l’altro la Calabria come la sua seconda casa (assidue erano le sue vacanze estive nella Regione Meridionale).

Un richiamo all’emigrazione è fatto anche in Cogli la mia rosa d’amore: “Cogli il suo figlio in Germania/la miniera il carbone a Natale verrà”. E’ il dramma delle famiglie meridionali che vedono partire i propri figli in cerca di fortuna e che aspettano le festività per poterli riabbracciare.

Brano sull’emigrazione è infine Agapito Malteni il ferroviere (“Agapito Malteni era un ferroviere/viveva a Manfredonia giù nel Tavoliere”). E’ la storia tragica e commovente di questo ferroviere che stanco di vedere la propria gente partire, lasciare il “suo paesello”, emigrare in cerca di lavoro, abbandonando i propri campi per andare a lavorare in miniera o in fabbrica (“lasciando la sua falce/in cambio del martello”). Quindi decise di ribellarsi e pensò di manomettere la locomotiva (“Una tarda sera partì da torre a mare/doveva andare a Roma e dopo ritornare/pensò di non partire o pure senza fretta/di lasciare il treno a Barletta”). Nel personaggio di Agapito Malteni si legge la figura dell’antieroe, del ferroviere ben diverso dal protagonista anarchico de La locomotiva di Guccini, che lancia la sua locomotiva come una bomba contro le ingiustizie e le disuguaglianze.

BIBLIOGRAFIA

- Silvia D‘Ortenzi, Rare tracce (2007)

- Massimo Cotto (a cura), Ma il cielo è sempre più blu (2004)

- Alfredo del Curatolo, Se mai qualcuno capirà Rino Gaetano (2004)

domenica 2 marzo 2008

INSOMNIA O NOCHE PRIVADA


a N Y S
che mi hanno regalato
un pezzettino
del loro mondo


“De fierro,

de encorvados tirantes de enorme fierro, tiene que ser la noche,
para que no la revienten y la desfonden
Las muchas cosas que mos abarrotados ojos han visto,
las duras cosas que insoportablemente la pueblan.”
(J. L. Borges, Insomnia)


“Buio d’inferno e di notte privata”
(Dante, Purgatorio XVI, I)

“Ah, come solo in un lampo
Di mortaretto si placa,
se squarcia il Buio d’inferno
un incanto di notte privata”
(Gianni D’Elia, Notte privata)




Tutto tace, tutto è calmo, è pacato, sereno, ma è una calma apparente, ambigua. La frenesia del giorno si riversa immancabilmente nella notte, gravata dall’onere di sorreggere le “dure cose che insopportabilmente la popolano”: i valori del mercato, che sostituiscono i vecchi valori del secolo passato, e religiosi, lontani ormai dal loro vero credo; le ciminiere industriali; la crescita “violenta” della città legata all’abusivismo edilizio (“forte petomane/scritta dal diavolo/in spregio solenne dell'umanità”, Molto lontano, Paolo Conte); le catene gastronomiche; le violenze private.
La notte come un immenso vaso di pandora, pronto a trasbordare con il peso dei mali che ricadono sul mondo, che inghiottono tutto e tutti, le opere in generale e l’individuo in particolare, necessita di una forza maggiore che la aiuti a sorreggersi: due “encorvados tirantes”, metafora di un lavoro costante per la costruzione forse di un mondo migliore che parte necessariamente dall’io, dalla persona, per arrivare alla società.
Una notte vangogghiana dei nostri giorni , uno stile surreale caratterizza questo quadro dai toni pacati sfumati, interrotti dalla comparsa dei due tiranti, che irrompono violentemente nella scena notturna, marcando il senso della poesia di Borges (Insomnia, da L’altro, Lo Stesso), quindi con funzione di sostengno, di atlanti ferrei del moderno.
(D. P.)

Non manca certo un significato molto più intimistico (il più intimistico di tutti!), personale, autobiografico, legato proprio ad un determinato periodo, ad una lunga-breve notte privata.

giovedì 31 gennaio 2008

La sera viene ancora con le sue rondini



E' da poco uscita l'ultima raccolta di Gianni D'Elia, "Coro Dei Fiori". Degli eventi politici di questi ultimi giorni mi piace parlarne proprio con una delle nuove poesie del poeta pesarese:


La sera viene ancora con le sue rondini,
che nulla sanno del cambio del governo,
ma filano negli azzurri profondi
come se non ci fosse l'inverno...

Cos'è mai il balletto dei presidenti
in confronto a questi voli radenti
che girano la casa rigarrendo
e fanno dello spazio il loro tempo?...

Quanto tempo perso in quanti anni
dietro a speranze che furono inganni,
per quest'Italia che occupò la vita

di quella gioventù venuta a sera,
e per chi fu compagno di partita
il sol dell'avvenir fu notte nera?...

Fischiano ancora in strada Giovinezza
nel bel sole di giugno del Duemila,
e nel cuore rimane l'amarezza

che risuona un'Italia morta viva...

mercoledì 2 gennaio 2008

LA PAZZIA



La tempesta in cui siamo ha il nostro nome

(Gianni D’Elia)


Prima pagina: “ancora morti sulla strada”. Seconda pagina: “violenza negli stadi”. Terza pagina: “diciottenne si butta dal V piano”. Quarta pagina: “ancora mistero sul delitto familiare”.

“Non un giornale – ho pensato – ma un cimitero in fogli!”. E’ come se a governare fosse la pazzia.


«Non ci rendiamo conto
Che siamo tutti in preda
Di un grande smarrimento
Di una follia suicida.

E sento che hai ragione se mi vieni a dire
Che anche i più normali
In mezzo ad una folla
Diventano bestiali
E questa specie di calma
Del nostro mondo civile
È solo un’apparenza
Solo un velo sottile».


(Verso il Terzo millennio, Gaber-Luporini)


La pazzia, che si esplica nella totale convivenza di elementi di serenità quasi quotidiana (una poltrona, una televisione, un tavolo e una sedia sono elementi tipici di un nido familiare) ed elementi di violenza e di morte (la strada, il coltello, il cappio, il pallone da calcio).


“Si parla molto della follia contemporanea, del suo correlarsi all’universo della macchina e al venire meno dei rapporti affettivi diretti tra gli uomini. Questa correlazione non è certo fittizia, e non è un caso se il mondo patologico assume così di frequente, ai nostri giorni, l’aspetto di un mondo in cui la razionalità meccanicistica esclude il persistere della spontaneità della vita affettiva” (da Malattia mentale e psicologia, di M. Foucault).


Mi colpirono molto le parole del poeta Gianni D’Elia: «Gli italiani sono maleducati sentimentalmente. Perché, l’analfabetismo sentimentale e quindi la violenza, da dove viene? Viene dal fatto che uno non scava dentro di sé, non conosce niente di se stesso e quindi giudica gli altri e il mondo sempre da fuori» (dall’intervista Pasolini: morte italiana). Manca proprio quel rapporto di sentimento, di “sentire” tra “L’io e gli altri” (dall’omonimo saggio di R. D. Laing). Mai come ora è venuta a mancare la “pietas umanistica”. Come si spiegherebbe allora il filmare la tragica morte di una sedicenne marocchina, investita da un autobus, da parte dei compagni di scuola?


Ed ecco allora il ruolo educativo della poesia e quindi del teatro, del teatro che
«ci rinvia alla trascritta vita».
Questo spiega il “mio” teatro senza un pannello una parete di fondo, senza uno
sfondo ben delimitato, ma solo l’orizzonte, le montagne, il cielo, la realtà.
L’occhio della poesia e del teatro sulla realtà.


«Se il reale è lingua orale, e il cinema
lo scrive, che cos’è il teatro, padre?»
«Eh, lingua orale della lingua orale


è il teatro, e come la lingua scritta
del cinema, ci rinvia alla trascritta
vita, che di se stessa è lingua orale,


rende il teatro presente la fitta
della vita, che si dà nel parlare,
parlare nel parlare e nel pensare…»


(da Trovatori, Gianni D’Elia)