La tempesta in cui siamo ha il nostro nome
(Gianni D’Elia)
Prima pagina: “ancora morti sulla strada”. Seconda pagina: “violenza negli stadi”. Terza pagina: “diciottenne si butta dal V piano”. Quarta pagina: “ancora mistero sul delitto familiare”.
“Non un giornale – ho pensato – ma un cimitero in fogli!”. E’ come se a governare fosse la pazzia.
«Non ci rendiamo conto
Che siamo tutti in preda
Di un grande smarrimento
Di una follia suicida.
E sento che hai ragione se mi vieni a dire
Che anche i più normali
In mezzo ad una folla
Diventano bestiali
E questa specie di calma
Del nostro mondo civile
È solo un’apparenza
Solo un velo sottile».
(Verso il Terzo millennio, Gaber-Luporini)
La pazzia, che si esplica nella totale convivenza di elementi di serenità quasi quotidiana (una poltrona, una televisione, un tavolo e una sedia sono elementi tipici di un nido familiare) ed elementi di violenza e di morte (la strada, il coltello, il cappio, il pallone da calcio).
“Si parla molto della follia contemporanea, del suo correlarsi all’universo della macchina e al venire meno dei rapporti affettivi diretti tra gli uomini. Questa correlazione non è certo fittizia, e non è un caso se il mondo patologico assume così di frequente, ai nostri giorni, l’aspetto di un mondo in cui la razionalità meccanicistica esclude il persistere della spontaneità della vita affettiva” (da Malattia mentale e psicologia, di M. Foucault).
Mi colpirono molto le parole del poeta Gianni D’Elia: «Gli italiani sono maleducati sentimentalmente. Perché, l’analfabetismo sentimentale e quindi la violenza, da dove viene? Viene dal fatto che uno non scava dentro di sé, non conosce niente di se stesso e quindi giudica gli altri e il mondo sempre da fuori» (dall’intervista Pasolini: morte italiana). Manca proprio quel rapporto di sentimento, di “sentire” tra “L’io e gli altri” (dall’omonimo saggio di R. D. Laing). Mai come ora è venuta a mancare la “pietas umanistica”. Come si spiegherebbe allora il filmare la tragica morte di una sedicenne marocchina, investita da un autobus, da parte dei compagni di scuola?
Ed ecco allora il ruolo educativo della poesia e quindi del teatro, del teatro che
«ci rinvia alla trascritta vita».
Questo spiega il “mio” teatro senza un pannello una parete di fondo, senza uno
sfondo ben delimitato, ma solo l’orizzonte, le montagne, il cielo, la realtà.
L’occhio della poesia e del teatro sulla realtà.
lo scrive, che cos’è il teatro, padre?»
«Eh, lingua orale della lingua orale
è il teatro, e come la lingua scritta
del cinema, ci rinvia alla trascritta
vita, che di se stessa è lingua orale,
rende il teatro presente la fitta
della vita, che si dà nel parlare,
parlare nel parlare e nel pensare…»
(da Trovatori, Gianni D’Elia)
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